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Storia di un emigrante:

Rosario Di Capua

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ROSARIO DI CAPUA – Come in un film 

 

Questa storia ebbe inizio verosimilmente nel 1921 ed ebbe come protagonista mio zio Rosario, il maggiore di sette figli generati da mio nonno Sebastiano Di Capua con mia nonna Nunzia Venza. In verità, solo ora, dopo aver fatto indagini anagrafiche presso l’archivio di Castellammare del Golfo, ho saputo che il vero nome, così come registrato alla nascita, è Sebastiano e non Rosario. Ciò premesso, nessuno me ne voglia se per comodità, poiché sempre così l’ho conosciuto, continuerò a chiamarlo Rosario.

Mi chiamo Matteo Di Capua, ho novanta anni e prima di addentrarmi nei meandri dei ricordi, ritengo che sia doveroso fare alcune precisazioni:non so bene le origini di mio nonno Sebastiano, non conosco granché della sua storia, ho intuito che come cognome è probabile che derivi dalla città di provenienza, appunto Capua (grande e importante città antica)e tutto ciò che qui sarà annotato, o meglio, in massima parte, mi è stato raccontato da Antonino, detto Nino, Basiricò, fratello di Padre Basiricò, già parroco di San Giuseppe qui a Castellammare e, in ultimo ho chiesto aiuto a mia figlia Giacoma, affinché mettesse per iscritto questo mio ricordo.

Di mio nonno Sebastiano solo ora ho saputo che è stato registrato come “nato il 6 Giugno 1882, “d’ignoti parenti” da Russo Rosaria, rotaia presso la Ruota Pubblica di Via Garibaldi 137 (presumibilmente presso l’attuale Chiesa di Sant’Antonino). Fu affidato a Guardì Francesca, moglie di Maurizio Sebastiano e residenti in Via Sparacino a Castellammare del Golfo. Morì in data 15 Agosto del 1952 all’età di 70 anni.

 

Come dicevo, mio zio Rosario era il grande di sette fratelli (Nunzio - mio padre, Elena, Mafalda, Maria, Giuseppe e Luca, miei zii). Tutti abitanti e residenti a Castellammare con i genitori Sebastiano e Nunzia (sposatisi il 05 Dicembre del 1903), in Via Dell’Orologio n. 30 (ora via Puccini). Ho lavorato con mio zio Rosario e posso dire che era una persona che si distingueva nel suo lavoro di marinaio, ma anche per il modo d’essere e per come si comportava con gli altri.

Di lui, di certo, mi restò impresso nella mente soprattutto il coraggio che aveva. Certe attività, che chiunque avrebbe ponderato prima di farle, lui le svolgeva con naturalità. Non era uno sprovveduto, ma di certo aveva una soglia del rischio un po’ più alta di molti altri. Altra caratteristica era la sua generosità e per questo era apprezzato e rispettato. Mi sentivo un privilegiato visto ero l’unico nipote che gli poteva dare del “tu” e per quei tempi, credetemi, era cosa rara.

Ma, andiamo alla nostra storia e poniamoci il primo interrogativo: perché mio zio Rosario emigrò e  perché in America? Semplice, quella era intesa come la “terra promessa”, un posto al mondo dove si poteva realizzare qualsiasi sogno, ma soprattutto dove c’era lavoro per tutti. Perché emigrare? Questo è il punto principale; in fondo lui il lavoro lo aveva, un marinaio in più o in meno non faceva la differenza, si riusciva a mangiare e a tirare avanti la famiglia, con stento e dignità.

Aveva diciassette anni quando prese la decisione. Si disse che non correva buon sangue tra lui e il padre, mio nonno. E’ vero, erano tanto diversi e spesso non collimava il loro modo di vedere le cose. Oggi diremmo che la “guerra generazionale” era esasperata, immaginate cosa ciò poteva voler dire un secolo fa. Altrettanto certo era che mio nonno era un tipo severo, doveva pur gestire una famiglia numerosa, con tutti i problemi che ne derivavano. Mio zio Rosario, invece, era autonomo nel pensiero, uno spirito che oggi definiremmo “libero”. Negli anni immediatamente precedenti la partenza, i rapporti si erano ulteriormente deteriorati: io ero molto giovane, ma capii che il nonno, di tanto in tanto, alzava un po’ più del solito il gomito e non era del tutto estraneo ad atti di intolleranza (forse non solo verbali). I fratelli e le sorelle di Rosario sopportavano, lui no.

Partì. Non ho mai saputo come, da dove, con chi. Di sicuro si unì alla fitta schiera di clandestini che da Castellammare e zone limitrofe, sognavano la bandiera a stelle e strisce. Ero troppo piccolo per chiedere e di questa storia, in famiglia, non se ne parlava tanto volentieri.

Arrivò in America, probabilmente direttamente a New York. Da questo momento cambiò anche la sua vita. Lui non scelse, infatti, di confondersi insieme alle migliaia di clandestini emigrati, non si accontentò di guadagnarsi il pane, anche con un lavoro in nero, sottopagato e sicuro ma onesto, non volle navigare a vista nel mare insidioso della società italo-americana.

E’ verosimile che cedette alle avances del potere, di chi comandava nell’ambiente, di chi aveva saputo piegare le regole e la legge e ne aveva tratto opportunità in molti settori della società di oltre oceano.

Non si è mai saputo che ruolo ebbe mio zio all’interno di quel contesto. Niente è mai trapelato, nessun fatto, nessuna indiscrezione è arrivata a noi, qui a Castellammare. Non sappiamo neppure quanto sia durata questa sua “brutta” esperienza, se uno, due anni oppure uno o due decenni. Solo una notizia arrivò a noi, una notizia ammantata di mistero e di silenzi: Rosario si era stancato  e voleva cambiare vita.

Forse aveva capito che era il caso di smettere, di dare alla sua vita una svolta legale più consona alle proprie origini, di saltare il fosso che, altrimenti, lo avrebbe inghiottito e fatto sparire, come sarà successo a molti altri concittadini in America.

Decise così di cambiare nome e città. Era pronto per ricominciare e certamente ebbe il sostegno di una parte sana della società da lui conosciuta fino allora. Ora nei suoi documenti spuntava il suo nuovo nome: J. B. (si usano le iniziali del nome e del cognome a tutela della privacy della famiglia, anche se si sconoscono discendenti e/o affini). Si trasferì a Boston o in una cittadina vicina. Probabilmente la scelta non fu casuale. Boston, infatti, era già allora una grande megalopoli, molto accogliente, al suo interno era facile mimetizzarsi, occultarsi oppure rifarsi una storia. Immagino, inoltre, che lì arrivò con un buon gruzzoletto, che gli garantiva non solo di avere libertà d’azione, ma anche una certa possibilità di sopravvivere agiatamente alle problematiche quotidiane.

In quella nuova terra incontrò la donna della sua vita. Non ricordo il suo nome, la chiamerò con un nome di fantasia: Concetta. Di certo ho saputo che era originaria di Sciacca,che era a Boston da qualche tempo con la sua famiglia e che godevano di una buona reputazione. J. e Concetta, una volta sposati, condivisero la storia a venire, anche se, come si usava nell’epoca passata, lei preferiva stare più nello sfondo.

E’ un peccato non poter contare su date certe e poter porre gli eventi in maniera cronologicamente esatta. Forse questa storia andrebbe più approfondita e indagata, ma alla mia età non posso certo dedicarmi a ciò.

Sappiamo che a Boston acquistò alcuni motopescherecci, li armò, si fece una ciurma adeguata e li spinse a pescare nell’oceano Atlantico. Sicuramente incappò in ripetute “pesche miracolose”, tanto da acquistare quasi contestualmente diversi punti di smercio e pescherie.

E’ probabile che inizialmente la sua attività fosse proprio questa: pescava e vendeva, alta qualità insomma.

Le notizie che arrivavano a Castellammare non erano sempre puntuali e verificabili; chi sapeva spesso taceva, oppure ci ricamava un po’ su per rendere le cose più appetibili all’orecchio indiscreto o invidioso. Si seppe anche, per esempio, che acquistò alcuni alberghi e che gli affari gli andavano, anche in questo settore, alla grande.

Ma lui guardava oltre e non si fermò mai per far crescere il suo patrimonio, che consolidò a tal punto che doveva certamente essere molto visibile. Arrivò voce, persino, che ricoprì la carica di sindaco di Boston, o di una qualche contea del territorio, non si sa bene. Ma in questo ebbe sicuramente un ruolo importante la famiglia della moglie, che era molto visibile sul territorio. 

Di soldi ne aveva fatti tanti: tanti quanto era il suo coraggio e la sua intraprendenza. A riprova di ciò, e questo mi consta personalmente, ricordo che nell’immediato dopoguerra, probabilmente già dal 1946, mio zio volle sorprendere noi tutti che stavamo a Castellammare del Golfo.

E’ facile immaginare quella che era la vita in quegli anni, le difficoltà in cui versavano le persone, reduci da una guerra distruttiva quanto inutile. Le giornate si spendevano alla ricerca di qualcosa da mangiare e non altro. Le campagne non erano sufficienti a sfamare le nostre bocche e, ripeto, si era fortunati quando la sera si riusciva a metter su la pentola con qualcosa dentro.

In questo contesto, certamente a conoscenza di mio zio Rosario, bussò alle nostre porte la fortuna. Non posso ricordare com’era vestita ma certamente non era bendata. Rosario, dalle lontane terre americane, ai suoi fratelli e sorelle e ai suoi genitori mandò 100 mila lire ciascuno. Dico “centomilalire”, ciascuno. Non ho idea, rapportati a oggi, quanto varrebbero, ma vi assicuro che in quel periodo con meno ci si comprava un quartino di case. 

Quella cifra che arrivò in ogni nostra famiglia fu importante e cambiò la nostra vita. Non posso aggiungere altro, avevo 14 – 15 anni, non conosco la destinazione che fu data all’inaspettata disponibilità liquida da parte di mio padre. Immagino che qualcuno pagò i suoi debiti, qualche altro si comprò la barca per pescare, qualche altro ancora si comprò la casa. In tutti noi, però, si ingenerò l’idea di avere avuto un santo protettore in quel paradiso chiamato America.

Si sapeva, inoltre, che i miei nonni, Sebastiano e Nunzia, mensilmente o quasi, ricevevano una rimessa dall’America. Rosario non trascurò mai i suoi doveri di figlio.

Le notizie su di lui arrivavano col conta gocce. Si seppe, per esempio, che si propose di aiutare un concittadino castellammarese che lavorava nel porto di New York, affinché non fosse sfruttato e maltrattato. Rosario era un personaggio influente e di tanto in tanto ne usava le prerogative. 

Si seppe pure che dal matrimonio con Concetta non nacquero figli. Questo, immagino, lo avrà mentalmente distrutto; a chi avrebbe lasciato i suoi cospicui averi alla sua morte?

Arrivò la notizia che, d’accordo con la moglie, si unì ad altra donna (probabilmente pagata), dalla quale generò l’ agognato “figlio maschio”. Oggi l’operazione andrebbe etichettata come “utero in affitto”, se non fosse successo intorno agli anni ‘30 o giù di lì. Al suo erede fu imposto il nome Sebastiano, come il padre di Rosario…manteneva però il cognome “B.”.

Il suo progetto, pezzo dopo pezzo, tendeva verso l’obiettivo.

I giochi del destino, però, non sempre sono cristallini e a distanza di poco tempo, la moglie mise al mondo una bambina, alla quale fu messo il nome di Nunzia, come la nonna paterna. 

Ma, qualcosa ancora mancava.

 Erano passati decenni, la sua vita era stata sufficientemente stravolta da avvenimenti di ogni tipo, si avviava a conclusione e, Rosario, aveva un ultimo tassello da aggiungere per completare il puzzle. Aveva giurato a se stesso che sarebbe morto riacquistando il suo vero nome e sulla sua tomba ci sarebbe stato scritto “Rosario Di Capua”, o meglio “Sebastiano Di Capua”.

Diede, così, mandato ai propri legali, affinché iniziassero l’iter per la variazione anagrafica. Riappropriarsi del suo vero nome era un modo per riacquistare la sua dignità. Ma l’universo pensò le cose in maniera diversa.

 Rosario morì d’infarto prima che potesse coronare il suo sogno il 30 Luglio del 1954, appena due anni dopo la morte di suo padre. 

Ciò che poteva essere un vero “sogno americano”, da questo momento, finì col diventare un incubo. 

Il cognato di Rosario, fratello della moglie, col quale è probabile che fosse in società negli affari, prese il controllo dell’impero economico. 

Non sapremo mai se per incompetenza, se per mancanza di voglia o se volutamente, si rese artefice del declino completo di tutto ciò che fino allora era stato realizzato. Finirono sul lastrico.

Certo rimane viva la mia curiosità di sapere cosa sia rimasto di mio zio Rosario, mi auguro e spero che almeno il coraggio sia stato validamente tramandato. Rimarrà insoddisfatta, inoltre, la mia curiosità su due altre “voci” che sono da sempre circolate nella mia famiglia: accertare la veridicità del fatto che nell’immediato dopoguerra una nave americana, su comando di mio zio Rosario, scaricava mensilmente nel porto di Castellammare viveri e generi di prima necessità, come aiuto alla popolazione e accertare se è vero che il vecchio ospedale, che sorgeva nell’odierna Via Marconi (lì dove ora sorge l’odierna struttura), fu da lui rifornito di tutto il necessario al suo funzionamento (lettini, lenzuola, coperte, cucina e materiale sanitario vario). Sarebbe bello se potesse venire fuori la verità.

Mi piace pensare che in qualche angolo del mondo c’è ancora qualcuno che ha nel proprio DNA un po’ di salsedine del nostro mare di Castellammare.       

 

Castellammare del Golfo 18/04/2020                         Matteo Di Capua

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