Storia di un emigrante: Giacinto Di Filippi
Gli anni successivi al primo conflitto mondiale segnarono momenti difficili per l’economia del nostro
territorio. Furono in molti gli uomini arruolati che non fecero più ritorno alle loro case. L’agricoltura era ancora in ginocchio anche a causa dell’epidemia di fillossera che aveva decimato i vigneti autoctoni già a partire dalla fine del 1800. Essendo pressoché sconosciuta e di conseguenza non combattuta per tempo, perdurò fino agli anni venti del secolo successivo.
Mio padre si chiamava Giacinto Di Filippi e già a 15 anni era orfano di padre. Aveva notevoli difficoltà a condurre quella che oggi chiameremmo “azienda agricola di famiglia”. L’ansia quotidiana del sostentamento della famiglia e la voglia di un futuro diverso, si trasformò in desiderio di trovare altrove nuove e più sicure prospettive lavorative ed economiche. Si incuriosiva ascoltando i racconti di alcuni paesani, già emigrati negli Stati Uniti, con i quali entrava in contatto.
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Era il mese di giugno del 1924, non aveva ancora compiuto 19 anni. Armato di spavalderia e un po' di incoscienza, partì a cavallo dalla sua casa di Guidaloca. Portò con se il frutto del raccolto di un’intera annata e raggiunse la marina di Castellammare del Golfo. Da lì iniziò la sua seconda vita: vendette pure il cavallo per potersi pagare il costo del viaggio. Con lui, un gruppo di altri compaesani, circa 25 persone.
Salparono a bordo di una piccola imbarcazione, fino al largo della Sardegna ove era ad attenderli un piccolo piroscafo proveniente da Genova. Il mercantile a vapore li avrebbe trasportati fino al nuovo mondo.
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Gli stessi armatori erano i fratelli Romano, anch’essi di Castellammare del Golfo, zii dell’omonimo più noto Arciprete Mons. Salvatore Romano. Non era una vera e propria nave attrezzata per il trasporto di passeggeri, bensì un mercantile riadattato allo scopo.
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Gli avventurosi passeggeri furono sistemati nelle stive alla meno peggio. Un minimo di riservatezza era dato da dei tramezzi divisori provvisori. La traversata oceanica durò ventisei giorni; fu una vera e propria odissea. Presto il cibo scarseggiò, l’acqua fu razionata e le condizioni igieniche degli alloggi di fortuna degradarono. I pagliericci su cui avrebbero dovuto dormire erano pieni di parassiti e fu un tormento per tutto il tempo del viaggio.
Quando finalmente giunsero in vista del continente americano, i clandestini furono intercettati dalla Guardia Costiera statunitense. I militari, tuttavia, non sono riusciti a salire a bordo per ispezionare la nave. Il capitano, forte del fatto che l’imbarcazione non era ancora entrata nelle acque territoriali americane, li evitò e così non sottopose i passeggeri alle conseguenze di una aspra ispezione i cui risultati sarebbero potuti essere deleteri.
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Nel 1921 era in vigore una legge americana nota come “Emergency Quota Act”. Questa si rese necessaria poiché il fenomeno dell’immigrazione aveva assunto proporzioni esasperate e rischiava di non essere più controllabile dalle autorità statunitensi. Gli ammessi non potevano superare il 3% dei residenti dello stesso Paese che già vivevano negli Stati Uniti. Ciò significava che gli immigrati provenienti dal Nord Europa, essendo una quota più elevata, avevano più possibilità di essere ammessi rispetto a quelli provenienti dall’Europa Meridionale, fra cui gli italiani (ritenuto un popolo meno assimilabile). Era inevitabile che il governo statunitense attuasse particolari provvedimenti che limitassero l’entrata specialmente di italiani.
Questo era il quadro che attendeva i nostri emigranti sul territorio americano, pur considerato che circa il 50% degli soggetti partiva come clandestino e senza alcuna prospettiva di lavoro.
Dei venticinque conterranei, alcuni passeggeri riuscirono egualmente a raggiungere gli Stati Uniti, in quanto potevano contare sull’aiuto in loco di parenti o conoscenti solidali. Molti, infatti, con piccole imbarcazioni prelevavano i clandestini al di fuori delle acque territoriali statunitensi e li conducevano segretamente sulla terra ferma.
I più, sempre a bordo della nave mercantile, per sfuggire alla Guardia Costiera americana, si diressero verso il Canada, dove tentarono di approdare nel porto di Halifax.
Furono lasciati in balia di loro stessi per giorni, dopo essere stati intercettati dalla polizia locale che era stata allertata dalla Guardia Costiera. Vennero condotti in stato d’arresto all’interno di un grande capannone dove ebbero, tuttavia, la possibilità di ripulirsi, di cambiare gli abiti ormai ridotti a brandelli e, finalmente, di potere fare un pasto decente.
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Mio padre mi raccontava di enormi ceste di pane e di mele che furono da loro assaltate. E ogni volta che ricordava quegli attimi, lo faceva con grande sofferenza. Con gli occhi pieni di delusione mi raccontava che solo dopo pochi giorni, sempre in stato d’arresto, lui e i suoi sventurati compagni d’avventura furono rimpatriati in Italia.
Ma quella storia dolorosa sembrava quasi non conoscesse tregua. Al rientro in Patria, come se non bastasse tutto questo, furono portati in carcere con l’accusa di “emigrazione clandestina”, allora reato penale. Mio padre che in tutti i modi aveva cercato la libertà, rischiando ripetutamente la vita, ora si trovava recluso in una angusta cella del carcere dell’Ucciardone. Lì scontò la pena, essendosi assunto la colpa di aver tentato di riappropriarsi della dignità di un lavoro e di un futuro altrimenti negatogli. Furono poche decine di giorni, ma rimasero in lui forti ricordi per la solidarietà che ricevette. Spesso preferiva ricordarli con un sorriso, associando la costrizione delle carceri alla “pasta con sarde e finocchi”, che con affetto gli offrivano compiacenti i compagni di cella.
Attilio Di Filippi, Castellammare del Golfo, 07/01/2020