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Storia di un emigrante: Giuseppe Ciaravino

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E’ facile, troppo facile, trovare e raccontare storie di piccola e grande povertà nella nostra bella Castellammare, quando, dopo la prima guerra mondiale, un’intera generazione di uomini e di donne disperati fuggirono verso le Americhe.

Cercavano e inseguivano un sogno tanto agognato: un lavoro, un po' di benessere per la famiglia, ma soprattutto, la dignità fin qui negata.

Intere famiglie sradicate dal territorio, dalle loro origini, da tutto quello che avrebbe dovuto essere un porto sicuro, ma che si era tramutato, invece, in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. 

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E fu così, nella disperazione e nella consapevolezza del bisogno, che mio nonno materno, Giuseppe Ciaravino, appena ventunenne, marinaio da generazioni, prese la dolorosa decisione di lasciare tutto e partire per il bene della sua famiglia. 

Fu davvero dolorosa questa decisione, perché lasciò qui a Castellammare la moglie ventenne, incinta di mia madre, e un figlio di due anni non ancora compiuti. 

Ho davvero difficoltà ad immaginare il momento del distacco, quel sofferto lungo addio, quelle calde lacrime che rigavano quei due giovani volti, pieni di speranze infrante e certi di una sicura incertezza.

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Non ci furono bianchi fazzoletti svolazzanti al porto di Palermo, o mani che si agitavano a salutare un marito, un padre, che andava via per un tempo indefinito. Non ci furono nemmeno valigie da imbarcare: lui partì da clandestino, quasi come un ladro. 

A noi nipoti non raccontò mai di quel lungo periodo di navigazione, non ci disse mai come trascorse quei giorni nascosto nella stiva di quella grande nave, non sapremo mai se mangiò, se patì la fame, la sete o se qualcuno dell’equipaggio lo aiutò. Non raccontò mai se ci furono forti tempeste, se si sentì male, se mai in quei momenti si pentì di aver lasciato il suo paese e la sua dolce famiglia. Non erano argomenti di cui aveva voglia di parlare. 

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Arrivò, comunque, in quella terra sconosciuta, eluse i controlli e non so come o quando iniziò a vendere pesci sotto il ponte di Brooklin (vedi foto), in qualche modo doveva pur vivere. Mia nonna iniziò pian piano a ricevere qualche soldino e, soprattutto, le lettere, quelle tanto agognate “notizie”. Seppur sgrammaticate e informi, quegli scritti riuscivano a riaccendere la luce nelle lunghe e tetre giornate di solitudine. Erano piene di ricordi, di nostalgia e di storie raccontate che servivano a tener sempre viva quell’immagine di marito e di padre, anche per chi non lo aveva mai conosciuto (mia madre venne al mondo e non conobbe il calore delle braccia paterne fino alla sua maggiore età). Due figli che crescevano, che avevano imparato a conoscere un padre da delle lettere e dalle parole di una moglie che moglie era stata solo per quasi due anni. 

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Che fatica fece mia nonna con i suoi figli nel trovare sempre le parole giuste che riuscissero a fare amare la figura del padre lontano. Dalla sua bocca non usci mai una parola di rabbia, di astio verso una vita che l’aveva privata di un uomo scelto e amato. Che angoscia quelle lunghe attese di un postino che non bussava a quella porta; come si poteva festeggiare il Natale, un compleanno? Come questi figli avrebbero potuto capire, una volta cresciuti, il perché nei giorni di festa non si cucinava? Il solo messaggio che passava era “il padre lontano” di cui non si sapeva, non arrivavano notizie, e, comunque, era stato deciso così!

Furono anni terribili. E poi la guerra, di nuovo. Non arrivò più nulla, né soldi, né lettere. Lei sola con due figli da portare avanti, da far studiare, per raggiungere l’obiettivo, quel benessere tanto desiderato. 

Lui solo in terra straniera, non sapremo mai quanto ormai straniera, straziato dal non sapere nulla della sua famiglia. 

Nei momenti più duri mia nonna, apparentemente di roccia, vendeva le sue lenzuola, ricamate con le sue mani, vendeva dei dischi di opere liriche, vecchi cimeli sopravvissuti, vendeva i suoi piccoli gioielli, qualche catenina, qualche spilla, ricordi del proprio matrimonio. La famiglia ne aveva bisogno, i medici andavano pagati, oppure si accontentavano di un disco o di un vecchio ricordo di casa. 

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E poi lui tornò. Erano passati appena venti anni. Venti anni, apparentemente semplicemente un numero. Venti lunghi anni, venti lunghi anni di notti insonni, di lunghe giornate piene di ansia, piene di problemi da risolvere, di domande inattese alle quali bisognava far fronte, di mancanza di carezze, di conforto, di affetti. 

Tornò per pochi mesi, il tempo di rivedere la propria famiglia, fin qui conosciuta solo attraverso le lettere. Pochi mesi vissuti come se potessero riempire una vita lunga vent’anni. Ma la felicità di questo ritorno, rimase solo nelle aspettative di tutti. Quei pochi giorni si tramutarono in un confuso sconvolgimento del quotidiano e monotono alternarsi del tempo. 

Chi era e cosa voleva quest’uomo che vedevano per la prima volta, che si coricava nel letto accanto alla madre, togliendo il posto alla figlia, che mangiava a tavola con loro e che probabilmente desiderava fare il padre?

Loro avevano una madre che aveva fatto anche da padre, in fondo era andata così, non avevano bisogno di altro. 

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Ricordo, con tristezza, il racconto che mia madre faceva di quel periodo; lacrime silenziose le riempivano gli occhi, quasi a voler fare uscire innumerevoli sensi di colpa provati. Fin quando lui ripartì, …. che liberazione, … si ritornava, finalmente, alla solita routine. 

C’era però qualcosa di nuovo, una consapevolezza diversa, la certezza di un padre in carne ed ossa e non solamente parole. Ma qualcosa cambiò sicuramente, e chi sa quali pensieri maturarono nella mente di mia nonna, una donna forte che da sola aveva cresciuto i suoi figli in periodi estremi. Non sapremo mai quanto mia nonna fu combattuta da tormenti che solo una moglie sola può provare e che si era imposta di superare solo perché i figli erano troppo piccoli e andavano protetti e accuditi. 

Il ritorno e quella troppo veloce ripartenza lasciò delle traccie nell'anima di mia nonna. Ora, però, i suoi figli erano grandi, universitari entrambi: era arrivato il suo momento, il momento di essere moglie e donna, non solamente madre. 

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Fu così che, sistemati i figli, prese armi e bagagli e partì, da sola verso le lontane Americhe. Era forte la voglia di ricongiungersi alla sua metà, all’altra parte del suo cielo, in quell’altra parte di mondo, e dare un senso alle cose, prima che potesse essere troppo tardi. Che donne … quelle di una volta. 

Peppina Navarra arrivò in America e mise subito le cose al loro posto, … “ora ci sono io” e questo è un messaggio chiaro per tutti. “Sono stata lontana dal mio uomo ma è il mio uomo” … e chi doveva sentire, ha sentito.

Si mise a lavorare di buona lena Peppina; imparò presto un solo itinerario, da casa fino alla fabbrica e dalla fabbrica fino a casa. Cuciva camicie la nonna, mentre lui, mio nonno, in un’altra ala le stirava. Era lì, a vista. Li immagino, alla fine delle giornate di lavoro, mano nella mano, ritornare insieme a casa, sapendo comunque che i loro sacrifici sarebbero andati a buon fine, non erano stati inutili. Il tempo di maturare il diritto alla pensione americana, che li avrebbe aiutati nella vecchiaia, ed eccoli finalmente nel loro paese, insieme ai loro figli e ai loro nipoti. 

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Quante cose ho capito di loro da grande. Quand’ero più giovane, non riuscivo a spiegarmi il perché del carattere autoritario di mia nonna, la “marescialla”, così la chiamavamo ridendo per i suoi modi imperiosi. Ora ho capito. Non capivo perché il nonno, ogni volta che usciva di casa, comprasse sempre tante cose da mangiare e perché la dispensa fosse piena a dismisura, anche di cose non necessarie. Ora ho capito. Poteva permetterselo, Peppino da ora non avrebbe più patito la fame. 

Peccato che tutto questo sia durato meno di quanto avrei voluto.

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Castellammare del Golfo 05/02/2020             Rosaria Vitale

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