L’INFANZIA
Quando agli inizi del secolo scorso nasceva una bambina non era mai una gioia completa, ma era spesso velata da molte preoccupazioni. Un maschietto, crescendo, avrebbe aiutato il padre nel suo lavoro e avrebbe contribuito al mantenimento della famiglia. Una bambina no. Sarebbe stata solo una bocca in più da sfamare per le famiglie di modeste possibilità e una preoccupazione per il suo futuro da adulta.
Le tradizioni di allora non permettevano ad una ragazza di mantenersi da sola con il suo lavoro. Era destinata a rimanere in casa ad aiutare la madre nelle faccende domestiche, ad accudire i fratelli e le sorelle più piccole. Si, perché allora le famiglie erano piuttosto numerose, la mamma passava da una gravidanza all’altra ed ogni volta il bambino nasceva in casa con l’aiuto delle donne di famiglia: sorelle, cognate, mamme, suocere e della levatrice. Il dottore veniva chiamato solo in caso di difficoltà e di pericolo per la vita della madre o del bambino, a volte troppo tardi. Questa era una delle cause della elevata mortalità neonatale e delle partorienti.
In queste circostanze gli uomini venivano rigorosamente allontanati dalla camera da letto, così come gli altri fratellini e sorelline del nascituro.
Tutti si auguravano la nascita di un figlio maschio che avrebbe portato serenità e agiatezza, o che per lo meno avrebbe allontanato lo spettro della povertà. A volte però questo non accadeva, anzi la nascita di figlie femmine si susseguiva inesorabilmente portando sconforto nel padre che non sapeva come riuscire a mantenere la sua numerosa famiglia.
Tutti i figli, maschi o femmine che fossero, arrivati all’età di sei anni, iniziavano a frequentare la scuola elementare dove imparavano a leggere, scrivere e far di conto, ma non tutti completavano questo ciclo di studi. Le cause dell’interruzione erano varie: per le bambine si riteneva che fosse sufficiente che imparassero i primi rudimenti della lettura e scrittura, a scrivere la propria firma e un minimo di aritmetica, frequentando solo fino alla terza classe, poi si “ritiravano” a casa. Anche se ad una bambina piaceva andare a scuola, conoscere e imparare tante cose, doveva abbandonare quel mondo per aiutare la mamma: c’era da pulire la casa, lavare, stirare, badare ai fratellini e quasi non rimaneva tempo per il gioco.
L’ADOLESCENZA
I maschietti frequentavano la scuola più a lungo, anche fino al quinto anno ma nel frattempo aiutavano il padre nel suo lavoro imparando piano piano quello che sarebbe diventato in futuro il loro mestiere. A Castellammare del Golfo molti uomini erano occupati nella coltivazione delle ampie tenute dei notabili e proprietari terrieri, spesso si assentavano da casa per tutta la settima e vi facevano ritorno solo al sabato sera per poi ripartire il lunedì mattina presto. Il viaggio dal paese alla campagna era a volte lungo e disagevole sia per la condizione delle strade, che erano semplici “trazzere” sterrate, sia perché l’unico mezzo di trasporto era costituito dal carretto e dalla “vestia” , “lu sceccu”, un asino, o un mulo. Il cavallo era un lusso riservato ai ricchi.
Quando il figlio maschio finiva la scuola elementare, e a volte anche prima, se ne andava in campagna a lavorare insieme al padre e a poco a poco faceva sue le conoscenze necessarie per proseguire, da grande insieme al padre, nella coltivazione dei terreni.
D’altra parte il paese è affacciato sul mare, quel mare che ha sempre dato da vivere ai Castellammaresi non senza sacrifici e fatica da parte loro; il mare amato e temuto è stato generoso e a volte avaro, portatore di gioia ma anche di dolore. I maschietti che nascevano in una famiglia di tradizioni marinare, non avevano altra scelta che diventare pescatori così come lo erano stati il padre, il nonno e le generazioni precedenti. Ma ai bambini spesso piaceva quel lavoro che aveva un po' il sapore dell’avventura, che era un continuo misurare le proprie forze contro quelle del mare, del vento e del sole che in Sicilia scalda ma anche stordisce.
Un signore castellammarese di nome Matteo, nonostante la sua riguardevole età, ricorda ancora la sua infanzia quando, ancora piccolo, si alzava presto al mattino anche prima dell’alba, si vestiva e correva alla Marina per svegliare uno ad uno i marinai che dovevano imbarcarsi con il padre, poi andava al magazzino a prendere le reti , i secchi e tutti gli strumenti di pesca necessari quel giorno, ma che non fossero troppo pesanti per lui, e li portava alla Marina davanti alla barca del padre. Man mano che “li marinara” arrivavano sulla banchina li salutava chiamandoli per nome e appena arrivava anche suo padre li guardava imbarcarsi e allontanarsi piano piano verso il largo. Poi andava a scuola. Avrebbe voluto partire anche lui, ma era ancora troppo piccolo. Da grande la pesca è stato il suo lavoro per tutta la vita, e ancora ne parla con nostalgia.
LA GIOVINEZZA
A Castellammare agli inizi del secolo scorso i possidenti terrieri e i notabili del paese vivevano con meno ansie la nascita di figlie femmine dato che le loro condizioni economiche consentivano loro di mantenere una famiglia numerosa senza troppe preoccupazioni. Tuttavia anche per loro non era tutto rose e fiori. I terreni, i bagli , i bei palazzi nobiliari dovevano essere gestiti dagli uomini di famiglia perché le donne potevano essere solo mogli, madri o figlie anche nei ranghi più elevati della società del tempo. Per questo anche nelle famiglie “bene” di allora si sperava nella nascita di almeno un figlio maschio che potesse subentrare al padre nella gestione dei beni di famiglia e che, soprattutto, portasse avanti il cognome del padre e il nome del nonno. Ancora oggi nelle le famiglie di tutta la Sicilia i nomi dei padri e dei figli si alternano da una generazione all’altra.
Nelle famiglie benestanti i figli potevano studiare più a lungo per poi poter fare la stessa professione del padre. Alle figlie era riservata una educazione diversa che mirava a fare di loro delle brave padrone di casa sia nella gestione quotidiana, sia nell’affiancare il marito nel ricevimento degli ospiti. Le figlie imparavano a ricamare, a suonare il piano, a cantare e ad intrattenere. Tutto questo nell’attesa di sposarsi.
Intanto le ragazze dei ceti più modesti, operai, contadini, artigiani, passavano le giornate tra le faccende domestiche e la realizzazione del corredo.
IL CORREDO
Fin oltre la prima metà del novecento, le ragazze si sposavano molto presto, si diceva “la fimmina diciotto e lu masculo ventotto” anche se capitava non di rado che la ragazza si sposasse prima dei diciotto anni e con un uomo più grande dei ventotto anni. Questo avveniva in tutti i ceti sociali perché la preoccupazione maggiore dei genitori era che la figlia non trovasse un marito che la mantenesse e, col passare degli anni, la bellezza potesse sfiorire allontanando così gli eventuali pretendenti.
La preparazione delle ragazze al matrimonio iniziava prestissimo. Quando nasceva una bambina nelle famiglie con meno possibilità economiche, la mamma cominciava subito a preparare il corredo per lei perché era importante che fosse bello, che non mancasse di nulla, perché forse era l’unica cosa che avrebbe potuto dare alla figlia come dote, e che soprattutto sarebbe dovuto durare tutta la vita. Spesso, appena diceva al marito di voler cominciare a fare il corredo per la figlia neonata, lui si arrabbiava, non era d’accordo, i soldi servivano per le spese di tutti i giorni la bambina era ancora piccola, c’era tempo per il corredo. Ma la mamma sapeva che la bambina sarebbe diventata presto in età da marito e poi sarebbe stato duro improvvisare un corredo. Così, quasi senza farsene accorgere, comprava pezze di lino e di cotone per confezionare poi la biancheria. Spesso pagava le stoffe a rate facendo la cresta sulla spesa e il marito faceva finta di non accorgersene ma sotto sotto apprezzava l’oculatezza della moglie.
Verso i sei-sette anni alle bambine veniva regalato “un tulareddu”, un piccolo telaio da ricamo perché, giocando, imparassero a ricamare. Nel pomeriggio, finita la scuola o le incombenze domestiche, le bambine sedevano insieme alla madre, alle altre sorelle e spesso insieme alle vicine di casa e con il loro telaietto imparavano quei punti di ricamo che poi avrebbero impreziosito il loro corredo.
Quando la madre non era riuscita a comprare tutte le stoffe necessarie, allora le ragazze trascorrevano la maggior parte della giornata a tessere in casa le stoffe mancanti per confezionare materassi e cuscini in cotone che poi venivano riempiti di crine animale o vegetale, o di lana, o di piume. Se necessario, tessevano anche le stoffe per la biancheria di tutti i giorni o per quella più importante per le occasioni di festa. Poi, dopo aver disegnato le stoffe con tradizionali motivi floreali, di angeli o geometrici, passavano al ricamo usando vari punti: punto Rodi, punto Venezia, punto pittoresco, punto croce, punto piatto, punto Quattrocento, punto Cinquecento. I colori utilizzati nei ricami erano il bianco per la biancheria più elegante e quelli pastello per quella giornaliera.
Il corredo poteva essere più o meno ricco sia nella varietà dei capi che nel loro numero che poteva essere da 3, 6, 9 o12 capi per ogni tipo di biancheria o di vestiario a seconda delle possibilità della famiglia.
Una bellissima raccolta di biancheria da corredo del periodo che va da fine 800 fino a oltre metà del 900, è stata effettuata e conservata, insieme ad un interessante telaio del 1863 per tessere in casa le stoffe del corredo, presso il Museo Etno-Antropologico “Annalisa Buccellato”, creato dall’associazione omonima. Il museo si trova nel Castello Arabo-Normanno di Castellammare del Golfo ed è dedicato a diversi aspetti della civiltà siciliana, conserva oggetti di uso quotidiano legati alle coltivazioni agricole più diffuse, come quelle dei cereali, della vite e dell’olivo; attrezzi di vari mestieri, come quello del fabbro, del calzolaio, del, muratore, del falegname, del conciapiatti; suppellettili e utensili domestici.
Le famiglie più abbienti potevano permettersi un corredo ricco, completo, dai capi più lussuosi a quelli giornalieri e di solito comprendeva:
1) Lenzuola grandi di cui alcune in “tela di casa”, in tela Madapolam, detta “Matapollu”, in tela di Genova ricamate e guarnite di pizzo svizzero, o anche di bordure fatte all’uncinetto. A Castellammare la lavorazione all’uncinetto dei filati di cotone si è tramandata fino ai giorni nostri, tanto da dare vita a dei veri e propri club di appassionate di questa antica tradizione.
2) Coperte grandi, fra cui una “cuttunina” o trapunta per l’inverno. Una bella cuttunina gialla e rossa è esposta al museo Etno Antropologico. La cuttunina era una coperta che si preparava in casa o presso i monasteri di clausura. Entro due tele di stoffa molto resistenti, una di colore giallo e una di colore rosso, cucite sui tre lati, si poneva una certa quantità di fiocchi di cotone. Dopo aver cucito anche il quarto lato, le tele venivano poi trapuntate con un lungo ago a piccolo punto secondo piccoli quadrati. Sui tre lati veniva poi cucita una lunga frangia di colore giallo. Oltre alla cuttunina si preparavano coperte di lana, di cotone tessute in casa, coperte di seta damascata e di tela di lino finemente ricamata.
3) 8 materassi di cotone, tessuti in casa, di colore rosso e bianco, e 6 cuscini di cotone damascato bianco. Dei materassi 4 erano ripieni di crine, e 4 di lana. Dei cuscini la metà erano ripieni di lana di pecora, e la metà di piume. Con 4 materassi per lato, il letto matrimoniale risultava molto alto.
4) Giraletti o mantovane per il letto, una in cotone bianco ricamato e una in seta con merletto. Servivano per nascondere i trespoli di ferro su cui poggiavano 5 tavole di legno che sorreggevano i materassi.
5) Tende in tela di lino e in madapolan ricamate a punto cinquecento, e in seta per l’alcova.
6) Biancheria intima comprendente: camicie da notte bianche ricamate in madapolam, in tela di mussola, in tela campicchio, e alcune in cotone a colore. Liseuse , ossia giacche di lana per la notte e scialline rotonde. Sottane, cioè sottovesti in seta nera e bianca con merletto, e in mussola bianca e in colore. Vestaglie di raso e una di seta bianca per la prima sera di nozze, e di lana per l’inverno. Pettinatoi, ossia mantelline in seta o cotone ricamate da indossare al momento di pettinare i capelli. Asciugamani in tela di lino bianca ricamata, in filo di Scozia damascato con frangia e alcuni in tela di cotone tessuti a casa.
7) Biancheria a cucina: strofinacci in cotone tessuti in casa, tovaglie giornaliere in cotone a colori con i tovaglioli, grembiuli e canovacci per i pavimenti.
8) Servizi da tavola in tela di lino finemente intagliati e ricamati a punto Venezia o con applicazioni Rinascimento. Servizi in filo di Scozia damascato o in cotone ricamato bianchi e a colori.
9) Vestiti, tailleurs, gonne, camicette in seta, lana, cotone a colore per ogni stagione, più il vestito bianco per le nozze. Cappotti, soprabiti, guanti, cappellini, borse, scarpe, calze e pantofole. Di ogni capo di abbigliamento, se ne preparava uno di colore nero affinché la sposa fosse pronta ad onorare con il lutto la improvvisa morte di un parente. Spesso si aggiungevano teli in cotone nero che servivano per coprire gli specchi in caso di lutto.
10) Utensili di rame.
11) La sposa provvedeva al letto matrimoniale costituito da 5 tavole di legno, 2 trespoli di ferro e la testata e la pedata in rame.
12) il “finimento” o corredo di gioielli, comprendeva anello, spilla, collana e orecchini regalati dallo sposo, e orecchini regalati dalla madre della sposa.
XIX sec. Curriola. Foto della sig. Catia Marcantonio
Le famiglie con maggiori possibilità economiche facevano confezionare il corredo da ricamatrici di professione. Le altre famiglie facevano tutto in casa. Spesso le sorelle si aiutavano reciprocamente nel preparare il corredo che veniva conservato, senza prima lavarlo, “nta la curriola” che era una ampia cassa di legno provvista di ruote, larga un metro e mezzo, lunga due e alta mezzo metro, e tenuta poi sotto il letto matrimoniale. Il corredo rimaneva dentro la “curriola” anche per anni, fin quando non sarebbe arrivato il momento del fidanzamento e delle nozze.
Preparare il corredo sarebbe stato l’impegno principale delle ragazze fino a quando non fosse arrivato un buon partito che le avesse portate all’altare.
Il problema era tutto lì. Il buon partito.
IL FIDANZAMENTO
Sposarsi con un buon partito avrebbe dato alla ragazza la possibilità di condurre una vita agiata e priva di stenti; tutto il suo futuro dipendeva da chi avrebbe sposato. Per questo appena la ragazza arrivava all’età da marito, i genitori cominciavano a guardarsi intorno per individuare tra i giovani del paese, quello più adatto per la figlia.
I giovani avevano poca voce in capitolo nella scelta del fidanzato o della fidanzata; le occasioni per incontrarsi erano poche, infatti i ragazzi, obbligati a seguire il lavoro del padre, partivano il lunedì mattina e rientravano il sabato sera, se lavoravano in campagna, oppure stavano fuori in mare intere giornate se erano pescatori.
La situazione delle ragazze non era migliore: stavano in casa a completare il corredo e a sbrigare i lavori domestici. Non potevano uscire da sole né con le amiche, ma sempre accompagnate dal padre o dalla madre per andare a messa o ad altre cerimonie religiose.
Le uniche occasioni di incontro tra i giovani erano i balli durante il carnevale, o nelle feste di Natale, di Pasqua, o durante le feste dei santi venerati in paese, o durante la festa della Patrona, quando i genitori uscivano a passeggiare per le vie del centro insieme alla figlia. Solo in queste occasioni i ragazzi e le ragazze potevano notarsi e scambiarsi timidi sguardi , ma niente di più.
Qualche volta, dopo questi primi contatti tra i due ragazzi, il ragazzo informava il padre di avere fatto la sua scelta, e lui si incontrava direttamente, o con l’aiuto di un intermediario, con il padre della ragazza prospettando la volontà del figlio di fidanzarsi con la di lui figlia. Ma non sempre a questo primo contatto seguiva un fidanzamento, infatti c’erano alcune necessità che dovevano essere soddisfatte: prima di tutto le due famiglie dovevano essere dello stesso livello sociale, dovevano piacersi reciprocamente ed essere pronte per un matrimonio. Spesso succedeva che la figlia era l’ultima a sapere di essere stata chiesta in moglie perché magari il ragazzo non era riuscito a far capire le sue intenzioni alla ragazza tramite quei suoi fugaci sguardi, per cui lei si trovava assolutamente impreparata ad accettare come sposo un perfetto sconosciuto. Ma nella cultura del tempo il parere dei giovani era completamente ininfluente e tutto veniva deciso dai genitori che avevano il potere di decidere il futuro dei propri figli, sia delle femmine ma anche dei maschi. Per questo poteva succedere che fosse il padre di lei, direttamente o tramite un intermediario, a contattare il padre di un probabile marito per la figlia.
Comunque, quando le due famiglie si piacevano, veniva stipulato un accordo su basi economiche davanti ad un notaio che redigeva un “Atto Dotale” dove veniva annotato il complesso di beni, che includeva in primis il corredo e poi eventuali case , terreni, strumenti per il lavoro e tutto quello che la donna portava al marito per sostenere gli oneri del matrimonio. Normalmente però, le famiglie del popolo non andavano dal Notaio, ma si accordavano redigendo una analoga scrittura privata che veniva firmata dai padri dei due fidanzati.
L’istituto dell’Atto Dotale risale al diritto romano ed era pienamente attuato fino alla prima metà del secolo scorso sia tra i ceti altolocati che tra quelli popolari. La dote restava comunque di proprietà della moglie che poteva disporne a suo piacimento, e in caso di morte prematura, non veniva ereditata dal marito, ma tornava tra le proprietà della famiglia di lei. Successivamente con l’articolo 166 bis Codice Civile si dispone il divieto di costituzione di dote, e L’Atto Dotale è stato dichiarato nullo dalla L.19 maggio 1975.
A volte capitava però che i ragazzi non fossero d’accordo con la scelta fatta dai genitori e rifiutavano di accettare il coniuge da loro scelto perché segretamente innamorati di qualcun altro, magari non gradito dalla famiglia o per il ceto sociale di appartenenza o per le condizioni economiche. E qui si ricorreva alla “fuitina”, i due innamorati, senza farsene accorgere dai genitori, scappavano insieme da casa e si rifugiavano da amici o conoscenti per tre giorni, tanto quanto bastava per compromettere l’onore della ragazza, e forzare così il consenso alle loro nozze da parte dei genitori. Ma la “fuitina” a volte era utilizzata dalle famiglie con poche possibilità economiche, come espediente per fare un matrimonio sotto tono, di mattina all’alba, senza festa, senza abiti eleganti per risparmiare e consentire ai ragazzi di sposarsi ugualmente. Questo capitava quando le famiglie erano numerose e i genitori non avevano le possibilità di organizzare i matrimoni per tutti i loro figli; oltre tutto le convenzioni imponevano che i vari figli si sposassero secondo l’ordine di età, dal più grande al più piccolo, e non tutti erano disposti a aspettare il loro turno. Per questo si ricorreva alla “fuitina”. A volte capitava però che la fuitina non era organizzata con il consenso di entrambi e ragazzi, ma era un vero e proprio rapimento della ragazza fatto con la forza per imporre una scelta non accettata da lei e dalla sua famiglia. In questi casi il matrimonio si faceva comunque, sotto tono per salvaguardare l’onore della fidanzata.
Quando però le famiglie erano d’accordo, si organizzava il fidanzamento e poi le nozze. I genitori dello sposo venivano invitati a casa della sposa per conoscersi e fare la richiesta ufficiale, e in questa occasione il fidanzato regalava l’anello alla ragazza insieme ad un mazzo di fiori.
Era dopo il fidanzamento che si usciva dalla “curriola” il famoso corredo messo insieme con tanta fatica e lavoro per tanti anni e ormai ingiallito dal tempo. Bisognava prepararlo al meglio per portarlo nella nuova casa ad accompagnare la nuova vita degli sposi. Per questo le donne di famiglia e le amiche della ragazza iniziavano a lavare la biancheria insaponandola e lasciandola “a lu sule e a lu serenu” , al sole e all’umidità della notte, senza sciacquarla finché non fosse ritornata candida. Poi, una settimana prima delle nozze, il corredo, pulito e stirato, veniva esposto in casa della sposa nella stanza più grande per ricevere la visita di amici e parenti che ammiravano, toccavano e valutavano i capi esposti, e portavano il loro regalo agli sposi, spesso in banconote che venivano appese su uno dei lenzuoli disposto su un ”trispito”, trespolo, con tanto di cartellini che recavano scritto il nome del donatore e la cifra donata, e che venivano letti e commentati dai visitatori.
Dopo questa esposizione il corredo se ne tornava nella sua “curriola” e si trasferiva in casa degli sposi in attesa delle nozze.
Corredini per neonato, Museo Etno Antropologico C.Mare del Golfo
Articolo a cura di Maria Sidonia Cappellini,
29 Giugno 2022
Bibliografia
Roberto Calia: Usanze e costumanze – Serograf Edizioni
Grazia Ciacio: Album di famiglia -Serograf Edizioni
Arte e cultura ( HTTPS://WWWSICILIAFAN.IT/.ARTE-E-CULTURA/)
2017Matrimonio Di Sicilia - M-Madisì : Amori proibiti: la fuitina
2017Matrimonio Di Sicilia – La “Vagghiata”
Ricordi personali o racconti tramandati da abitanti di Castellammare del Golfo.
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