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Il Natale: una luce nell’oscurità. Folklore siculo e retaggio pagano.

  • Immagine del redattore: Kernos
    Kernos
  • 21 dic 2020
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 23 gen 2021

“È innegabile […] che, accanto a sinceri momenti di profonda gioia, una certa ambiguità dei sentimenti ci attanagli in questo periodo. È il momento del “rientro”, della riunificazione familiare, del confronto e resoconto annuale, dove le problematiche legate ai rapporti personali e sociali, normalmente assopite durante il resto dell’anno, affiorano con maggior limpidezza. […]

Ma, viene da chiedersi, una tale ambiguità non potrebbe avere (anche) una radice storica?[…]

È la semplice nostalgia che provoca quei sentimenti che dicevamo o non dura, piuttosto, il palese malessere dell’uomo di fronte a un evento ibrido fra devozione e consumi?”[1]


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Prospettiva. È il valore aggiunto che ci permette non solo di comprendere meglio ciò che abbiamo, ciò che celebriamo, ma ci permette anche di viverlo profondamente, senza forzarci dentro a una consuetudine, ma riconoscendo in quella consuetudine i tratti storici della necessità.

Nella storia niente accade per caso.


E la festa di Natale forse è la meno casuale di tutte.


“Le religioni sono succedute alle religioni”[2], e questo è un dato di fatto imprescindibile, al di là del proprio sentimento di appartenenza a una di queste. La religione, come una lingua, è un soggetto in evoluzione, un corpus che nei secoli opera un atto dinamico di cambiamento e adeguamento continuo, per assicurarsi –come ogni sistema che si rispetti- la sopravvivenza e la diffusione costanti.

Il Cristianesimo non rappresenta di certo un’eccezione, e dovette pagare notevoli tributi agli dei pagani precedenti[3], che dal canto loro, si lasciarono modellare per non morire, o viceversa lasciarono vuoti incolmabili che pesano come macigni.


Intanto occorre fare un passo indietro: perché durante l’anno gli uomini hanno sempre avuto la necessità di celebrare, ma soprattutto perché in certi momenti si e in altri no? Misurare il tempo, operare una crasi tra il tempo ordinario e il tempo straordinario della festa, sembra essere una fattispecie umana come respirare, bere e mangiare. Non c’è popolazione al mondo che non lo faccia e non applichi al tempo un andamento ciclico, dalle civiltà aborigene alle moderne società hi-tech. Il nostro calendario “dipende dal tempo cosmico, regolatore della durata che s’impone a tutte le società umane; ma queste lo recepiscono, lo misurano e lo trasformano in calendario secondo le loro strutture sociali e politiche, i loro sistemi economici e culturali, i loro strumenti scientifici e tecnologici”[4].



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Dipinto raffingurante il Concilio di Nicea (325 d.C.)

Il calendario cristiano iniziò a darsi una certa definizione solo a partire dal IV secolo, sulla base di due diverse influenze: da un lato il calendario romano, dall'altro quello ebraico (ricordiamo infatti che a quell'epoca la vecchia religione ebraica e il cristianesimo nascente non erano ancora ben distinti). Fu il Concilio di Nicea (325 d.C.) a stabilire nero su bianco le “regole” alle quali il nuovo Cristianesimo si doveva attenere per distinguere la propria identità da quella dell’ebraismo, ma soprattutto da quella pagana.


Ma come dicevamo, i vescovi del concilio si trovarono di fronte una popolazione già poderosamente immersa in un tempo scandito da festività e celebrazioni, e si resero conto, secoli prima rispetto all'ormai famosa considerazione del Principe Salina di fronte ai fatti risorgimentali che bisognava di fatto “cambiare tutto per non cambiare niente”.

E così, con un’opera di ingegno senza pari, innestarono le nuove feste cristiane nel corpus precedente: la popolazione poteva così continuare a celebrare il tempo straordinario come nei secoli precedenti, ma appropriandosi lentamente della nuova connotazione religiosa.


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Bassorilievo raffigurante Il Sol Invictus di epoca Romana

Il Natale in particolare, che nel Cristianesimo è la ricorrenza della nascita di Cristo, fu posto nel giorno in cui nella Roma imperiale di celebravano due ricorrenze di derivazione orientale: la nascita di Mitra e il Natale del Sol Invictus, cioè il momento solstiziale in cui il giorno ricominciava ad allungarsi (tenuto conto anche delle imperfezioni e oscillazioni dei calendari antichi).


Angela Ales Bello scrive “la storia di Gesù Cristo viene compendiata in un anno liturgico che coincide con un anno solare a sua volta legato alla ciclicità delle stagioni”[5], ma dobbiamo renderci conto che non si tratta solo di osservare il tempo che passa, ma dargli piuttosto un senso.

E l’operazione di “dar senso” è tipica di un sistema religioso complesso, una consapevole traccia di spiritualità evoluta, pensata e praticata. Nella compenetrazione delle religioni le une nelle altre, assistiamo a fenomeni di solidificazione e legittimazione reciproca, anche nei tanti momenti di attrito (è utile ricordare anche che non sempre le stratificazioni religiose sono state accolte con piacere, ma a volte ci furono vere e proprie “resistenze”organizzate).


Ma perché il Natale è… natalizio?


Proviamo a calarci per un momento in una società senza i comfort moderni. L’unica fonte di calore era il fuoco e non era scontato averlo, e averlo in modo costante. L’inverno era pericoloso, i bambini e gli anziani erano quelli che rischiavano di più. Mangiare, e mangiare abbastanza era un lusso. Non era affatto scontato che ci si sarebbe ritrovati tutti insieme in primavera a festeggiare la natura che si risvegliava. La tensione, all'affacciarsi delle prime gelate, era palpabile, come anche la sensazione di “rottura” tipica dei momenti di passaggio (non a caso il Capodanno attuale è perfettamente integrato nei giorni della festa e rappresenta un continuum di senso ai giorni precedenti, prettamente “natalizi”).


Ciò che emerge è il senso profondo di essere legati a doppia mandata a un ciclo vita-morte-vita, in cui il sole “muore” ma subito dopo rinasce: la fredda mezzanotte invernale partorisce un sole fanciullo[6], un processo che non era affatto scontato nelle menti dei nostri antenati, e perciò andava rimarcato, celebrato, reso simbolicamente come punto di stabile ancoraggio nel mare tempestoso dell’inverno.


Anche in terra sicula il fuoco era il protagonista assoluto delle celebrazioni solstiziali[7], tutta la nostra isola è interessata a questo aspetto e non sono pochi i riferimenti a vampe, luminarie e falò nella storia delle nostre città. Tipico l’esempio di Tusa (provincia di Messina) in cui venivano fabbricati dei pupi (fantocci a guisa umana) che venivano puntualmente dati alle fiamme a capodanno[8].

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Lo "Zucco", il tipico falò natalizio catanese.

Il periodo natalizio aveva anche una forte componente propiziatoria nei confronti degli antenati, dei defunti, dei santi e del mondo ultraterreno in generale, e come diretta conseguenza anche un corpus incredibilmente nutrito di riti apotropaici (con lo scopo precipuo di allontanare la negatività e difendersi dagli attacchi del maligno). In tutta la Sicilia, secondo il Pitrè[9] si credeva che la Madonna, dopo la mezzanotte scendesse col Bambino “ad assaggiar qualche cibo nelle famiglie”. Nel Siracusano, l’ultima sera dell’anno si buttavano sul fuoco incenso, zucchero o sale[10], a scopo di propiziarsi la benevolenza dei cari antenati e scacciare la malvagità. A Vicari (Palermo) alla fine dell’anno venivano regalati ai poveri gli armuzzi, un tipico dolce antropomorfo correlato esplicitamente alle “anime del purgatorio”. A Randazzo (Catania) a sottolineare il carattere manistico (riferito al culto dei morti) della festività, per l’Epifania si usava invitare a un sontuoso banchetto ventuno bambine, le quali dovevano aver digiunato il giorno precedente, nella convinzione che questo avrebbe aiutato l’anima di un caro defunto ad attraversare le porte del Purgatorio e trovarsi finalmente in pace[11].

Non mancano testimonianze relative a banchetti, mascherate, veglie e schiamazzi nelle chiese nella notte di Natale. A tal proposito, come esempio, citiamo il Sinodo di Patti del 1537, che racconta di gozzovigli e scorribande di individui armati di bastoni che minacciavano e percuotevano i fedeli, e di celebrazioni sempre in bilico tra il cristiano e il pagano[12].


In Sicilia, nella notte di Natale anche i malefici acquistano potenza particolare:


<<In Modica, nella notte di Natale e proprio nell’istante dell’elevazione dell’ostia alla messa di mezzanotte, chi vuol vendicarsi di un uomo trae dalla tasca un’arancia, che prima è stata ciarmata e scongiurata dalla maliarda, la scappella alcun poco, cioè le toglie un tassellino di buccia e va infilzando gli spilli negli spicchi dicendo ad ogni spillo che infilza: Tanti spinguli mettu ‘nta st’arancia, tanti dulura acuti avissi (nome del destinatario della maledizione); tanti spinguli ‘nta st’arancia, tanti malanni chiuvissiro supra (nome). Poscia getta l’arancia nel pozzo, o in una cisterna o in una fogna, e guai al povero diavolo contro il quale è stato siffattamente operato[13].>>


Sempre il Pitrè ci regala un altro scorcio di magia popolare quando descrive la pratica di “ottenere potenza sovrannaturale”, durante la notte di natale, tramite formule apposite trasmesse solo a taluni “iniziati”, che si confondevano con il resto dei fedeli[14].


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San Nicola e il Krampus, figura diffusa soprattutto in area germanica.

Ma allora da cosa deriva il fare regali, soprattutto ai bambini? La questua è una forma di ritualità diffusa in tutta l’Europa antica, che fa del simbolo dello scambio il significato principe dei momenti di passaggio. Lo scambio di doni, è infatti un servizio reso alla comunità, che promuove la salute e la prosperità, l’abbondanza e la ricchezza[15], al punto che non offrire doni era considerato un vero e proprio sacrilegio.

I bambini, d'altronde erano da un lato i più deboli, insieme agli anziani, quindi andavano protetti e “coccolati”, ma dall'altro, per ragioni di età erano, sempre insieme agli anziani, i più prossimi alla vita nell'aldilà, e dunque i più consoni rappresentati dal punto di vista propiziatorio (vedi anche la leggenda di San Nicola – 6 dicembre - e del suo fedele Krampus[16], che diede vita all'attuale figura di Babbo Natale).


In conclusione, quel che penso sia interessante da osservare, è che nonostante il mondo abbia cambiato le sue facce e siano mutati i nostri modi di vivere, il Natale con tutto ciò che simboleggia, continua a rappresentare un momento cruciale, in cui ritrovare radici talmente antiche da essere considerate imprescindibili dall’uomo e dalla sua evoluzione.


Alessandra Tamburello,

Dott.ssa in Filosofia e Storia e appassionata di storia delle religioni.


Bibliografia [1] C. Corvino – E. Petoia, Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana. Origini, credenze e tradizioni di due mitici portatori di doni, Newton e Compton, Roma 1999. [2] Ibid. [3] Cfr. E. Baldini – G. Bellosi, Tenebroso Natale, il lato oscuro della grande festa, Editori Laterza, 2012 [4] J. Le Goff, Calendario, in Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982. [5] A. Ales Bello, Analisi fenomenologica del tempo calendariale, Gli almanacchi, in Religioni e società, II (1987). [6] F. Cardini, I giorni del sacro. Il libro delle feste, Editoriale Nuova, Milano, 1983. [7] I.E. Buttitta, Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco nelle feste siciliane, Meltemi, Roma 1999 [8] I. E. Buttitta, La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, Booklet Milano, 2002 [9] G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Pedone Lauriel, Palermo 1881 [10] M. Raciti, Siracusa, tradizioni e costumi.L’albero della cuccagna, in Tuttitalia. Sicilia, Sansoni-De Agostini, 1962 [11] M. Raciti, L’Etna: tradizioni e costumi. La dimora del Dio Vulcano, in Tuttitalia, Sicilia, cit. [12] C. Corrain – P. Zampini, Documenti etnografici e folkloristici nei sinodi diocesani italiani, 1966 [13] G. Pitrè, Usi e Costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel, Palermo 1889 [14] Ibid. [15] Cfr. G. Giallombardo, Festa orgia e società, Flaccovio, Palermo 1990 [16] F. Rebbelato, articolo tratto dal web.


Articolo del 21\12\2020;


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