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La Varda

Aggiornamento: 23 gen 2021


Detta anche “sedda” nel dialetto siciliano, è una rozza sella che, fissata sul dorso del mulo o dell’asino, consentiva il trasporto di carichi di vario genere, che venivano assicurati con corde passanti attraverso appositi anelli applicati lateralmente. La "varda" serviva anche per cavalcare gli animali con un minimo di comodità.


Nel nostro uso comune, ora molto meno rispetto agli anni 40 - 50, alcuni detti facevano espresso riferimento alla pesantezza e alla fatica che era insita nella “varda”. Ecco perché si diceva: “St’omu porta la varda” (quest’uomo si addossa le fatiche più gravi), oppure, “un porta la varda” (non è schiavo di alcuno), oppure ancora, “E’ unu chi fa di varda e di sedda” (che si adatta un po’ a tutto). Questo giusto per fare qualche esempio, ma possiamo continuare: si dice di persona che non trova occupazione o che non è mai contento delle cose che gli capitano “non trova varda chi ci veni”, “arristari cu la varda sutta lu ventri” equivale a dire “restare deluso, appesantito”, e inoltre “mettiri la varda a unu”, significa “soverchiarlo, averlo in potere”.

Abbiamo appreso così che il basto era tra i più diffusi sistemi per ancorare i materiali da trasportare sul dorso degli animali da soma, in tempi in cui gli asini e i muli costituivano il più diffuso mezzo di trasporto per le cose e non di rado anche per le persone. Al basto potevano essere legate delle ceste o degli otri (le prime spesso utilizzate per l’uva in tempo di vendemmia <tineddi>, le seconde per il trasporto del vino o del mosto).

Come si vede nella foto, la “varda” era formata da una intelaiatura, costituita nella parte anteriore e posteriore da due assi ricurvi in legno che si incrociano ad un estremo, divaricandosi all'estremo opposto. Le assi erano collegate tra loro da quattro assi orizzontali di diametro inferiore. A questa struttura era fissata una sorta di sella in tela di canapa, oppure in pelle di capra, imbottita di paglia. Sovente alle due estremità della struttura in legno era imperniata una ribaltina anch'essa in legno e alcune cinghie in cuoio, sia anteriormente che posteriormente.





Talvolta contadini con un po’ più di disponibilità, realizzavano il basto a seconda dell’impiego cui era destinato, del tipo di percorso che si sarebbe fatto, della taglia dell’animale e, persino, con accessori e colori ispirati dalle tradizioni locali, per non parlare dei materiali di qualità usati specie per l’imbottitura.

E’ evidente che il tipo di impiego influiva sulla struttura del basto riguardo a peso, stabilità e robustezza, ma anche per gli accessori di cui doveva essere corredato. 

In tempi più recenti, sull’onda del crescente interesse per gli asini dovuto al diffondersi del cosiddetto trekking someggiato, si è iniziato col distinguere tra un basto da lavoro e un basto per piccoli carichi. Per il bagaglio necessario per un breve trekking, infatti, può andar bene un bastino leggero, dalla struttura essenziale che consenta di fissare saldamente un borsone, una tenda, uno zaino. L’attivazione del mercato di settore ha fatto sì che ora in commercio si possono trovare basti e bastini di ogni peso, foggia e persino colore.

In questi casi, dovrà sempre essere il buonsenso ad influenzare la scelta, basta ricordare che sarà il vostro asino a doverlo portare e tener presente che un basto scadente, o di dimensioni inadatte, di sicuro gli causerà dolore e fiaccature, ma anche danni più seri dovuti all’assetto sbilanciato o alla pericolosa compressione su regioni anatomiche delicate.

E’ bene tener presente che un basto leggero non deve essere usato per trasportare carichi pesanti, mentre non vale il contrario, ossia nulla vieta di impiegare un basto da lavoro e caricarlo poco. Per carichi pesanti, il basto deve essere molto robusto e stabile e avere una struttura rigida, indeformabile, per evitare che il carico posto sui fianchi dell’animale gli possa comprimere il torace, ostacolando la respirazione. Un basto da lavoro è fornito di accessori specifici che consentono di contenere, sorreggere, fissare il carico. Essi cambiano a seconda che si tratti di trasportare materiale sciolto, che va contenuto (ad esempio sabbia, uva), o elementi lunghi, che vanno sorretti e fissati (ad esempio tronchi), o materiali voluminosi, che vanno legati (ad esempio fieno), o materiali che richiedono supporti particolari (ad esempio grosse forme di formaggio, bidoni di latte), o che vanno protetti (bagagli di un viaggiatore o strumentazioni di un ricercatore). Il basto è provvisto di fori, ganci, anelli a seconda dell’uso cui è destinato.


Altro importante elemento accessorio erano i tipi di legatura, come la “susta”, una corda impostata come un sottopancia, ma posta al di sopra del carico, finalizzata a trattenere carichi voluminosi. Altri finimenti del basto, che servono a garantirne la stabilità anche a “pieno carico”, sono il sottopancia, che posiziona il basto e ne impedisce il ribaltamento per rotazione laterale, il pettorale e la braga e/o sottocoda che trattengono il basto quando tende a traslare rispettivamente indietro, in salita, o in avanti, in discesa. Certi antichi modelli adottavano due sottopancia, a garanzia di una maggiore sicurezza.

La difficile costruzione di questi basti da lavoro rimaneva sicuro appannaggio di tipo artigianale, affidata a poche maestranze, ora quasi totalmente scomparse, ancora in grado di fabbricarli.


La dimensione della “varda” era determinata dalla taglia dell’animale: un asinello non potrà portare quella di un cavallo di grossa taglia, e viceversa. La struttura o telaio del basto dovrà essere adeguata alle misure dell’animale. Analogamente ogni differenza di tipo morfologico tra un animale e un altro (una groppa dal profilo più o meno spiovente, un ventre dalla rotondità più o meno accentuata, ecc.), doveva essere assecondata. Questo è il motivo per cui spesso la “varda” era provvista di uno spesso cuscino che ricalcava, in negativo, la forma della schiena dell’animale, adattandosi ad essa e fornendo così un’ottima base di appoggio.

Non tutti ora riusciamo a immaginare quanto importante fosse stato fino ad un secolo fa possedere un mulo o un asino. Era un capitale e da esso ne derivavano delle prerogative non indifferenti, sia in ambito lavorativo, sia in quello sociale. I contadini avevano estremo rispetto per l’animale, fino a considerarlo quasi un elemento aggiunto della famiglia.

Non era inusuale, inoltre, che la “varda” venisse costruita su misura, così da adeguarla alla forma anatomica dell’animale, affinché col carico non si danneggiasse più di tanto. Aveva un costo che incideva profondamente nella magra economia del tempo, ma rappresentava elemento indispensabile e selettivo per il lavoro e per l’immagine.


La poesia che segue, che per metrica e composizione sarebbe meglio definire “parti”(*), non può meglio descrivere il senso, l’attaccamento, l’importanza e il necessario connubio esistente tra il contadino e la “varda” del proprio asino.

Del componimento, purtroppo, non conosciamo l’autore. Dal testo sappiamo che faceva “l’arrimunnaturi” (agricoltore specializzato nella potatura degli alberi o delle viti). L’uso di alcuni termini farebbero intendere, inoltre, che non sia stato castellammarese. E’ lui che, avendo avuto rubata la “varda” del proprio mulo, si scatena in un universale delirio senza pari, oltre la ragione, verso chi ha commesso l’illecito.

Voglio precisare, ad onor del vero, che il testo originale della composizione che ho avuto nella mia disponibilità, essendo stato trascritto verosimilmente da qualcuno che l’ha sentito recitare, conteneva comprensibili limiti ortografici, grammaticali, linguistici e metrici. Per questo motivo ho cercato, dopo averne studiato i singoli termini e con l’aiuto dell’amico socio e poeta Mario Maimone, di rendere il testo non solo leggibile ma soprattutto declamabile a tutti.

Per concludere, mi corre l’obbligo di ringraziare il Sig. Giuseppe Russo che, qualche estate fa, mi ha personalmente omaggiato della recita dell’intera opera, rigorosamente a memoria. In quella occasione gli promisi che avrei fatto in modo, nei miei limiti, di dare un più adeguato risalto al componimento e, soprattutto, fare in modo che non se ne perda la memoria.


(*) Nell’ambito di una più antica e classica modalità di comunicazione e trasmissione orale, non solo della letteratura ma anche della cultura popolare, di gesta, miti ed eroi, si inseriscono ”li parti”. Esse sono dei componimenti poetici tradizionali siciliani che, ripetutamente declamati, veicolavano la diffusione di notizie, di valori familiari e dell’onore, di offese subite, di regole di cavalleria perdute, ecc..   


Nicola Tamburello

LA VARDA ARRUBBATA


(1)

Cu fu chi la me varda si pigghiau,

arsu nta na carcara l’addisiu.

Nta na confusioni mi lassau,

siddu chi campa ci pinzassi Diu.

Senza cuscienza mi trattau,

latru di natura ci nasciu.

Quasi milli liri m’arrubbau

e ntempu di nenti mi spiriu.


(2)

E mi spiriu, stu ran macabunnu,

ma sempri e di cuntinu lu malannu,

essiri ncucciatu comu un tunnu

e poi strascinatu quasi un annu.

E di lu mari truvari lu funnu,

cu la me stessa varda iddu assummannu.

Genti chi nasciu a stu munnu

chi la liggi di Diu unni la sannu.


(3)

Unni la sannu chi un ci veni a bersu.

Ma iddu si lu priparau lu fossu

e na viscata attaccata a lu nstressu.                         

Ma poi a la fini chi s’arriva all’ossu,

lu carciri sempri è pi lu riversu                              

chi di li malandrini fa lu bossu.

Lu puvireddu di mia mi vitti persu

quannu truvavi lu me sceccu sdossu.


(4)

Sdossu chi ncampagna avia agghiri,

essennu la me arti arrimunnari.

Li capura mi custaru scentu liri,

chi Sciascia mi li vosi arrialari.

Lu chiddu chi si spenni un si ci criri,

nun c’è dinari chi ponnu abbastari.

Cu si pigghiau la varda ava’mpazziri,

speru c’av’agghiri addumannari.


(5)

Addumannari e vinissi nni mia,

sventurata è la casa sua,

omu birbanti di la mala via.

Comu na varca ne puppa ne prua,

fici na bedda parti in tirannia

confusioni unn’appi di la fua.

Cu fu chi si pigghiau la varda mia

merita mazziatu cu n’addua.  


(6)

Ma cu n’addua è cosa di nenti,

megghi cu lu ferru, è chiù pisanti,

scipparici l’occhi, li anghi e li renti

e l’ugna di li peri tutti quanti

e taghiarici l’aricchi quantu un senti,

ma puru dda cosa chiù brillanti.   

Pari ca’mmia un mi fici nenti,

comu mi cunsumau ssu stravaganti.


(7)

Stravaganti, armalazzu cu la cura,

di nicu la pigghiau ssa carrera,

mentri e picciottu fa la so fiura

e poi si lu mancia la galera.

Omu birbanti cu la menti scura,

roggiu sfasciatizzu senza sfera.

Lu fattu mi successi nta mezz’ura,

forsi era misu nta la cantunera.


(8)

E nta la cantunera era agguattatu,

omu birbanti e pezzu di sbannutu.

Camora si l’avissi a lu me latu

ci lu fascissi pigghiari lu fuiutu,

cu lu spaventu carissi malatu,

dicennu “matri mia ratimi aiutu”.

Lu pani duci è chiddu travagghiatu,

dormi cuetu e di nuddu è nusciutu.


(9)

Nusciutu sempri è lu trarituri,

cunn’avi vuluntà di travagghiari.

Quannu na cosa ci veni a favuri,

tannu si senti riccu di dinari.

Lu latru ni fa assai belli fiuri,

sempri è cuntenti chiddu c’av’affari.

Su belli li gusti e li sapuri,

ma nta lu lettu nun po ripusari.


(10)

Unn’ariposa e pensa di cuntinu

chi pari chi lu munnu è tuttu chianu,

c’esti valanchi, muntati e pinninu

ma quasi spissu s’incontra un pantanu.

Cosa sapi fari un malantrinu?

Cerca l’accurzu mentri va luntanu.

Quannu arriva poi a lu so distinu,

la nomina la perdi un cristianu.


(11)

O cristiani quantu patimenti,

quantu suspiri di lacrimi e chianti,

la vita ci ridusci suffirenti

quannu la carta ci veni cancianti.

La scena ci vutau ntempu ri nenti,

pi essiri di nicu stravacanti.

Lu pinsari di poi nun servi a nenti,

chi lu passatu cunsumasti a tanti.


(12)

A tanti consumasti farabbuttu,

meriti pugnalatu nta lu pettu,

stari notti e ghiornu nta un cunnuttu,

scatinarisi li chiappi di lu tettu.

Povira famigghia sempri a luttu,

moriri nun poi nta lu to lettu.

L’arvulu chi di natura nun fa fruttu,

merita scippatu pi dispettu.


(13)

E pi dispettu e pi li cristiani,

a chiddi chi lu munnu un fannu beni,

usanu sempri peggiu di li cani,

comu Gesù Cristu li manteni.

Tutti superbi, puliti e baggiani,

fari sta bedda vita ci cummeni.

E gheu travagghiu pi un tozzu di pani,

inveci d’iri navanti vaiu narreri.


(14)

Narreri e pi mia è sempri n’annata,

povira musa mia quant’è abbattuta,

comu mi vinni sta mala pirata?

Ma poi un c’è nuddu riccu chi m’aiuta.

E la me vita com’è situata,

cu sta giacchetta tutta camuluta?

L’omu chi travagghia a la jurnata,

mori di fami e la menti è sbattuta.


(15)

Sbattuta comu un pisci fora l’acqua,

cu l’avi lu beddu pani si l’ammucca.

Lu riccu ca a lu poviru lu smacca

e cu lu versu versu si l’allucca.

Quannu un ci veni bona la casacca,

comu si la rapi la so vucca.

Lu puvireddu cu la panza fracca,

fa la fiura mischina di la cucca.


(16)

La cucca chi pruvau lo so distinu,

sempri chi firria nta lu so chianu,

a lentu passu fa lu so caminu,

stanca s’arricogghi di luntanu.

Un guarda ne muntata ne pinninu,

pari chi si spatacchia ammanu ammanu.

E ghieu m’ammazzu sempri di cuntinu,

travagghiu sempri e nun pusseru un granu.


(17)

Li rana l’hannu tutti l’affarista,

la mbrugghiunaria è na cosa lesta.

E nun si parra di contrabbannista

chi pi arrubbari sunnu na timpesta.

E lu quarantatrì annata trista

chi pi l’americani fu na festa.

Lu puvireddu cu li peri pista,

lu pani caru su li fitti ntesta.


(18)

La testa la vulissi mazziata,

comu lu canalaru cu la crita.        

E la me varda com’era ncingata,

bona c’arrinisciu la so partita.

Comu ci vinni sta mala pinsata,

mi parsi abbersu di na calamita.

Chi chista fora l’ultima iurnata,

squagghiari comu un censu la so vita.


(19)

E la so vita nun aviri pasci,

essiri rusicatu di li puci,

nfilatu ‘nfunnu nna grossi furnasci

dunni ardi lu fucu e forti lusci.

Fari la bedda vita un ci rispiaci,

ddocu la natura lu canusci.

Quannu ch’è vecchiu poi si fa capasci,

chi la varda arrubbata un ci lusci.


(20)

E nun ci luci e campa sempri affrittu,

squagghiarici li vini di lu pettu.

E Gesù Cristu lu lassau scrittu

“un’arrubbari pi nessun difettu”.

Tirari lu filaru sempri drittu,

tutti d’accordu cu amuri e rispettu.

No comu st’armalu malirittu,

chi un mi lassau ne pasci ne risettu.


(21)

Risettu chi pruvavi tanti spisi,

mali ci n’addisiu di tutti usi.

Quantu zucca c’è a li Fraginisi,

quantu a Pilatu finocchi cu busi,

quantu giummari cu troffi di disi

e quantu alivi e sciuri curiusi.

Megghiu chi firriassi lu paisi

cu la me varda ncoddu e l’occhi chiusi.


(22)

Essennu chiusi non viri spaventu,

e mazziallu macari ogni tantu,

cantari lu misereru a gra lamentu

sempri pi la via di lu campusantu.

Tagghiallu pezza pezza nta un momentu

e la me varda sempri a lu so cantu.

A mia mi lu fici un trarimentu

e iddu gloria di disprezzu e chiantu.


(23)

Chiantu magari pi la casa sua

e li parenti n’hannu gelusia.

L’omu gnuranti chi mancu s’addua

e cerca sempri la so mala via.

Di nicareddu la pigghiau ssa prua,

affezionatu cu la lagnusia.

Scusati amici mei, a la facci sua,

ci addisiu un lanzu, duluri e sdiarria.


(24)

Ma cu la sdiarria po campari,

mugghi chi ci vinissi lu culeri.

Pi quantu nun putissi caminari,

truncarici li pusa di li peri.

S’è maritato un putiri campari,

mancu taliallu so mugghieri.

Siddu ch’è schettu un si la va scurdari,

pensa la varda mia e metti pinzeri.


(25)

Pinzeri chi mi misi na ruvina,

ma comu mi vutau la me furtuna?

Mali ci nnaddisiu nta la carina,

quasi a tuccari tutti dui purmuna.

Omu birbanti, tintu e mala spina,

lu soccu cumminasti un t’inn’adduni.

Megghiu pigghiaritilla la lavina

cu la me varda fari cadduluna.


(26)

E cadduliassi pi tutta la strata,

e pezza pezza farisi la vita,

e ogni tantu la ramazziata,

ntesta pruvari la megghiu firita.

Nta li spaddi na bedda picata

e nta li scianchi nfilarici spita. 

Tutta la so carni frantumata,

addivintari un criveddu di sita.


(27)

Di sita l’adurnassi la so menti,

picchi fu latru furbu e vigilanti.

La varda mi vulau ntempu di nenti,

bona la cumminau l’omu birbanti.

E li vicini un sappiru nenti,

tutti d’accordu, chi foru farfanti.

Ma a la fini nun cunchiusi nenti,

la paga na li cosi chiù pisanti.


(28)

Pisanti li vulissi li mazzati,

li corna affacciarici puntuti,

ma beddi lunghi, nta tutti du lati,

grossi e robusti comu tanti cuti.

Tutti li vardi na li corna appizzati,

e n’altra pocu a li spaddi cusuti.

Tutti la genti fussimu priati,

la festa s’arricampau di li sbannuti.


(29)

Sbannuti ca lu cori mi subbatti,

pinsannu sti gintazzi maliritti.

Pi na pocu d’anni stannu chiatti,

ma poi na la vicchiaia sunnu afflitti.

L’antichi u’nni li cuntanu sti fatti,

ma cu la virità su sempri critti.

La lotta di li surci cu li atti

e poi vannu arristannu a li suffitti.


(30)

Picciotti, vi lu ricu, stati allerti,

ognunu teni forti la so arti,

travagghiari cu amuri e occhi aperti

e cu diversi amici stari sparti.

Quantu ni canusciu genti sperti,

chi c’hanno appena risughi di carti.  

Cu m’arrubbau la varda e nun si converti,

lu me cunortu sunnu sti trenta parti.


Articolo del 18\06\2020;


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