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Pasquale Turriciano: memoria di un Brigante Partigiano

Aggiornamento: 23 gen 2021


Primo marzo 1870, Castellammare del Golfo, muore durante la cattura il brigante-partigiano Pasquale Turriciano.


Era stata lunga quella notte di carnevale del primo marzo. Musicanti e ubriachi si strascinavano lentamente per le vie e i vicoli. Ombre quasi spettrali mentre qua e là risa e sberleffi si andavano inesorabilmente spegnendo. Altre ombre quella notte si muovevano in silenzio, confondendosi e stranamente mischiandosi con quelle del carnevale.

Le stradine che dai “Petrazzi” scendono buie e scoscese verso i “Cerri”, lungo quello che è il quartiere “Vignazze”, videro crescere lentamente questi oscuri fantasmi. Improvvisi scalpiccii, qualche sbattere nervoso sui selciati irregolari degli zoccoli fasciati di qualche cavallo. Tra le ombre e le ultime risa, in molti sapevano che quella notte di carnevale non era finita, che sarebbe stata ancora lunga. Lo sapeva il marsalese Salvatore De Vita, guardia di Pubblica Sicurezza, che stringeva con forza il suo moschetto, lo sapeva perché il capitano glielo aveva detto, glielo aveva detto che in caso di bisogno lui avrebbe dovuto per primo sbarrare l’ingresso di quella casa tanto cercata e finalmente così vicina. Lo sapeva Clemente Maltese, milite della sezione di Trapani, lo sapeva che quella notte non era finita, che sarebbe stata ancora lunga. Lo sapeva soprattutto il comandante dei militi a cavallo della sezione di Alcamo, Salvatore Mancuso. Quel Salvatore Mancuso che da poco più di sei mesi aveva assunto il comando della “sezione”, sostituendo Gaspare Fundarò, così com’era stata la volontà del Prefetto di Trapani. Alle “Vignazze” di certo non lo sapeva Maria Mistretta, che quella notte la doveva vedere come protagonista di un dramma, in effetti, e per molti versi ormai scontato. Suo marito Camillo, da più di un anno era stato catturato ai “Grotticelli”. Aveva resistito tutta la notte Camillo al lungo assedio dei militi, aveva resistito da solo con la sua fedele doppietta, eroicamente come le gesta che narrava nella “Seguera”, come un protagonista che nel momento cruciale della propria vita non può che impersonare se stesso. E come ultimo atto di orgoglio, Camillo prima di arrendersi, volle e pretese, che al suo arresto presenziassero e assistessero il sindaco Nicolò D'Anna Militelli e il notaio Vito Mattarella Asaro. Per Camillo erano la maggiore espressione di quei “galantuomini di Castellammare” ai quali, insieme ai suoi compagni, aveva, illudendosi, fatto affidamento e che ora Camillo chiamava a testimoniare la resa, a nobilitare quasi la sua strenua difesa. Di recente a Maria un altro colpo era stato inferto; da poco più di due mesi l'amato fratello Nino, quel Nino Mistretta forse il più fedele degli uomini di Pasquale, quello che più d’ogni altro aveva sempre rischiato accanto al suo capo, era stato preso ad Alcamo, nella Via Rocche. Ora in fondo era tutto quasi scontato, dopo otto anni rimaneva solo lui, il capo, solo Pasquale. Attorno a lui erano caduti quasi tutti, da Tano Di Giorgi a Gioacchino Gervasi, dal caro Nino Chiofalo a Vito Fontana. Gli altri, insieme al fido Camillo Cajozzo erano quasi tutti in carcere. Il capitano Mancuso sapeva. Sapeva che Maria quella notte non era nella sua casa della Via Ferrantelli, dove Pasquale si nascondeva. Lo sapeva bene, perché la soffiata era stata precisa e circostanziata. Vi era un posto su tutti dove Pasquale Turriciano si poteva nascondere, quando la notte rimaneva a Castellammare. Quello non poteva che essere la casa di Maria Mistretta. In quel nascondiglio segreto, ricavato nella rientranza del sottoscala che porta al piano superiore e che fungeva da ripostiglio. Quel nascondiglio sì sicuro, ma che Minico Lamia, il muratore che lo aveva realizzato conosceva bene. Il capitano Mancuso se lo era portato con se Minico, sapeva che Maria non era nella sua casa di Via Ferrantelli, sapeva che dormiva in casa della madre e che lì doveva andare a prenderla. Ormai il gioco era fatto, i casolari di campagna e gli anfratti rocciosi di monte Inici e dello Sparacio, dove Pasquale poteva nascondersi, da giorni erano attentamente presidiati. Pasquale lo sapeva, gli ultimi amici fidati lo avevano avvisato che strani e sospetti appostamenti rendevano “difficile” il territorio. Ma anche Mancuso sapeva che tenendogli bloccati i rifugi delle campagne era lì nella casa di Maria l'unico posto sicuro dove Pasquale poteva rifugiarsi. Lì a pochi metri da quella via dei Caprai, dove ventotto anni prima era nato e dove era nato il fido Camillo Cajozzo. Lì dove tutto era iniziato, lì ventotto anni dopo finiva. In fondo un vecchio proverbio siciliano, per il più sconosciuto ai giovani non dice? “Lu sceccu dunni si susi, si curca”. Ventotto anni erano passati da, quando bambino giocava in quelle viuzze, ventotto anni erano passati anche per Salvatore De Vita, dalla sua Marsala, da un'infanzia da figlio d'ignoti, all'importante divisa della Pubblica Sicurezza del drappello di Trapani. Era sì lunga quella notte di carnevale, ma in fondo tutto stava per finire. L'attesa era stata snervante, lo sapeva bene il milite Clemente Maltese a cui la sorte in fondo stava per assegnare un ingrato ruolo. Lo sapeva bene il capitano Mancuso che stava per finire, lo sapeva perché Minico Lamia gli avrebbe indicato con precisione il punto dove era la botola, non appena Maria trasportata dai militi nella sua casa di Via Ferrantelli, li avesse fatti entrare. Lo seppe subito Pasquale, quando sentì aprire la porta, il calpestio dei passi e le voci, il lungo sospiro di Maria tacita intesa d’avvertimento. Lo seppe e compì l'ultimo atto che il suo stesso mito lo obbligava a fare, l'ultima resistenza. La rapidità con cui si aprì la botola e con cui esplose i due colpi di fucile; il primo ferendo mastro Minico. Salvatore De Vita era lì, sulla porta. Come gli aveva ordinato il capitano. Lì arrivò il secondo colpo, il colpo mortale. Poi la fuga fuori, l'accerchiamento, il colpo di Clemente Maltese, tutti gli altri. Le grida, le imprecazioni; ma non di Pasquale. Poi tutto finì. Scalpiccii, voci, brevi corse, parole sommesse. Era finita si, ma era iniziata con canzoni e balli, come tutte le notti di carnevale e Pasquale l'aveva vissuta per quella che era, danzando a lungo mascherato con gli altri mascherati. Facendosi di nascosto riconoscere da uno dei musicanti della festa a cui si era presentato, per invitarlo a suonare “bella musica” affinché lui Pasquale si potesse divertire, e sbeffeggiando un milite tirandogli il bottone della divisa. La notte di carnevale era finita.


Tratto da "Turriciano - Brigante o Partigiano" di Francesco Bianco

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Articolo del 01\03\2020;


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